Il mistero ora risolto della salma perduta di Elio Morpurgo: è nel sacrario di Bari
1
LUGLIO
2018
dal “Messaggero Veneto”.
Deportato il 26 marzo del 1944 non arrivò ad Auschwitz Morí durante il trasporto da Udine a Zwickau in Sassonia
di VALERIO MARCHI
In vista dell’80° delle leggi razziali fasciste (autunno 1938) proponiamo alcuni articoli relativi sia all’antisemitismo sia alla partecipazione degli ebrei alla vita del nostro territorio tra Otto e Novecento. Negli ultimi dieci anni Valerio Marchi ha dedicato a questa tematica otto libri e numerosi saggi. Iniziamo con il personaggio più celebre: Elio Morpurgo, il cui figlio Enrico, fra l’altro, nel 1969 ha donato al Comune di Udine lo splendido Palazzo Valvason Morpurgo.
Elio Morpurgo, nato a Udine nel 1858, fu animatore della vita economica, sindaco della città (il primo sindaco israelita eletto nel Regno d’Italia), deputato, senatore e, infine, vittima dei nazifascisti. Sulla sua tomba vuota, nel reparto israelitico del cimitero comunale udinese di San Vito, un’iscrizione ricorda che lì egli sarebbe sepolto «se la crudeltà nazista, deportandolo grave di anni ed infermo verso una meta senza ritorno, non ne avesse disperso le spoglie». Molti ancora credono che dei suoi resti mortali nulla si sappia. Ma non è così.
Catturato il 26 marzo 1944 a Udine, Morpurgo fu condotto a Trieste-San Sabba e caricato, tre giorni dopo, su un convoglio diretto ad Auschwitz. All’arrivo, però, il 4 aprile, lui non c’era. Si sapeva che era deceduto lungo il tragitto, ma non che fine avesse fatto il suo corpo: come scrisse Vittorino Meloni nel 1959, si trattò davvero di «un tragico mistero».
I discendenti hanno cercato invano di conoscere la collocazione della salma del loro congiunto. Nel 1961, a esempio, Enrico Morpurgo inviò un «appello» – scrisse proprio così – al Servizio di Ricerche dei Dispersi di Arolsen (Germania); non solo, ma elencò le tante ricerche inutilmente svolte tramite il Governo Militare Alleato di stanza a Udine, la Croce Rossa Italiana, il Comitato Ricerche Deportati di Roma, la Missione Italiana a Vienna (su interessamento del Ministero degli Esteri), la Comunità Israelitica di Salisburgo… E proprio a Salisburgo, dove si perdevano le tracce del padre, si era recato per incontrare, con l’appoggio del viceconsole italiano, persone ritenute in grado di dare indicazioni utili. Ma nulla di nuovo era emerso. Nel 1962, poi, il Servizio di Ricerche rispose tramite il Consolato Generale d’Italia da Francoforte sul Meno: «Non risultano informazioni sul suo destino».
Tuttavia, qualche anno fa ho rinvenuto all’Archivio di Stato di Trieste un rapporto della «Legione territoriale dei carabinieri di Trieste», datato 13 aprile 1944, grazie al quale – ma non senza altre laboriose ricerche – abbiamo la prova che la salma di Elio fu tradotta dai tedeschi a Zwickau (città della Sassonia che sarebbe poi entrata a far parte della Repubblica democratica tedesca) con il nome spregiativo e generico di «Badoglio» (sul perché di questo fatto ho formulato alcune ipotesi nel mio lavoro “Il sindaco ebreo”, edito da Kappa Vu): ossia uno dei tanti italiani che, dopo l’8 settembre 1943, si rifiutarono di collaborare coi nazisti. La sepoltura, in un’area destinata ai deportati, risale al 1° aprile 1944.
Il 15 maggio 1990, sei mesi dopo il crollo del Muro di Berlino, i suoi poveri resti furono riesumati a Zwickau assieme a quelli di altri sette italiani vittime di guerra: giunsero in Italia alla fine del giugno 1990, ma l’unico fra gli otto a non avere un vero nome era proprio Elio, del quale nessuno poté reclamare le spoglie. Ho accertato che, all’inizio degli anni Novanta, le salme degli italiani senza nome, inumate in tempo di guerra in quei territori, venivano destinate al Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare di Bari.
Purtroppo, però, se – come è pressoché certo – le spoglie di Morpurgo giacciono lì, la loro collocazione nel mezzo di una marea di altri italiani ignoti non ne consente il recupero. Certo, a Udine la tomba di questo illustre personaggio rimarrà con ogni probabilità vuota, ma l’enigma «angoscioso» (come lo definì il figlio Enrico) è in buona parte risolto. Il che, peraltro, non cancella l’angoscia generata da quella e da innumerevoli altre tragedie dell’epoca: fu, come ha scritto Michele Sarfatti, “La Shoah in Italia”.