La guida di due donne e 500 firme: cosí Udine difese Alfred Dreyfus
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GENNAIO
2018
dal “Messaggero Veneto”.
Maria de Siebert ed Elena Fabris Bellavitis scrissero a Parigi in difesa dell’ufficiale ebreo accusato di alto tradimento
di VALERIO MARCHI
J’accuse…! (dal francese: «Io accuso»): un titolo così celebre ed esplosivo da diventare nell’uso corrente della nostra lingua un sostantivo, per riferirsi a un’azione di denuncia pubblica contro soprusi e ingiustizie. È con quel titolo che il 13 gennaio 1898, 120 anni fa, Émile Zola pubblicò sul quotidiano socialista parigino L’Aurore un editoriale in forma di lettera aperta al presidente francese Félix Faure. Sotto accusa, in primo luogo, gli alti gradi militari e i vertici politici, persecutori di un ufficiale ebreo alsaziano che, con il «pretesto menzognero e sacrilego della ragion di Stato», era stato condannato per alto tradimento. Il suo nome era Alfred Dreyfus.
L’intera vicenda costituì, secondo il grande scrittore francese, «uno schiaffo supremo a qualsiasi verità, a qualsiasi giustizia». Dreyfus, infatti, sommerso da menzogne, corruzioni e illegalità, in un contesto pervaso anche dal fanatismo clericale, fu il classico capro espiatorio dell’antisemitismo nazionalista dell’epoca. Nello specifico, quello transalpino.
E occorre ricordare, avvicinandoci al Giorno della Memoria (27 gennaio), che la straordinaria risonanza dell’Affaire Dreyfus – o più semplice-mente l’Affaire, come lo chiamano i francesi – evidenziò in modo eclatante il ruolo di propulsione politica dell’ideologia antisemita, sempre pronta, ieri come oggi, a sfruttare antichi e nuovi pregiudizi per mobilitare le masse.
Zola sapeva bene ciò che rischiava ed effettivamente le pesanti conseguenze non tardarono: subì infatti insulti, calunnie, due processi e un esilio a Londra, per evitare la prigione. Rimangono inoltre forti sospetti che il suo decesso, nel 1902, non sia stato affatto incidentale, e la stampa nazionalista e antisemita ne gioì senza ritegno. Non solo: durante i funerali, turbati da incidenti fomentati dalla destra, un giornalista estremista sparò a Dreyfus, che assisteva alla cerimonia, e lo ferì. Zola, tuttavia, aveva detto: «La verità è in cammino e niente potrà fermarla», perché «quando la verità viene rinchiusa sotto terra, vi si ammassa, acquista una forza d’esplosione tale che, quando scoppia, tutto salta in aria». E così avvenne. Quattro anni dopo, nel 1906, dopo mille sofferenze (fra cui una drammatica detenzione sull’Isola del Diavolo, nella Guyana francese) Dreyfus venne del tutto scagionato, prosciolto e reintegrato nell’esercito. Diversi responsabili, nel frattempo, erano usciti di scena, fra suicidi, dimissioni o altro.
Dell’Affaire si parlava ovunque, in Europa e altrove, e anche il Friuli fece la sua parte: basti dire che, in quella fine di secolo, un inviato del mensile ebraico piemontese Il Vessillo Israelitico riferì di avere riscontrato un sorprendente interesse per l’Affaire sino ad Ampezzo e nell’alta Carnia. Nel 1899 la stampa udinese, che dedicò sempre ampio spazio alla vicenda, definì «bella e stupenda» l’iniziativa di inviare alla famiglia Dreyfus una lettera di solidarietà firmata da quasi 500 cittadini «senza distinzione di partito»: a promuoverla era stata una collaboratrice del Giornale di Udine, Maria de Siebert, per chiarire a tutti che Dreyfus non apparteneva più «né agli ebrei, né ai francesi», bensì «alla religione che vuole il vero ed il giusto» e, dunque, «al mondo intero».
Giorni dopo, un’altra collaboratrice dello stesso giornale (Elena Fabris Bellavitis: si noti la presenza attiva di donne) aveva ribadito la necessità morale di «attestare la nostra simpatia all’infelice che ingiustamente tanto sofferse». La de Siebert esultò allora scrivendo che «Udine è sempre la buona, la grande», capace di unirsi «concorde e unanime dove il cuore è chiamato a esprimersi».
Anche da parti lontane d’Italia, friulani e friulane scrissero sia per lodare l’iniziativa (una «divina ispirazione») sia per ribadire che Udine tutta «attendeva angosciata la fine del doloroso dramma».