Quell’immane tragedia nell’inferno di ghiaccio
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LUGLIO
2017
dal “Messaggero Veneto”.
“La campagna di Russia” di Maria Teresa Giusti è finalista al Premio Friuli «Il fascismo usò l’alibi della “guerra santa” e anche Stalin ne capì l’importanza»
di VALERIO MARCHI
Lo storico Valerio Marchi intervista la scrittrice Maria Teresa Giusti autrice di “La campagna di Russia”, opera finalista del Premio Friuli Storia, che sarà assegnato in settembre a Udine
Il suo libro offre un’enorme ricchezza di fonti: quali le più nuove di parte italiana?
«Anzitutto le carte conservate nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, che aiutano a capire la preparazione militare, le condizioni al fronte e la questione dei crimini di guerra. Le relazioni delle spie del regime, conservate nell’Archivio Centrale di Stato, concorrono invece a ricostruire i rapporti italo-tedeschi e l’atteggiamento di militari e civili italiani verso la guerra. I diari inediti dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, poi, illuminano aspetti di storia sociale e la percezione della guerra da parte dei combattenti».
E le fonti russe?
«Le ho tratte dall’Archivio centrale del Servizio federale di Sicurezza della Federazione russa, dall’Archivio centrale del ministero della Difesa russo e dall’Archivio statale della Federazione russa».
Alcuni luoghi comuni vengono sfatati. Ci fa qualche esempio?
«Anzitutto – come ha già chiarito la storiografia tedesca – anche la Wehrmacht tradì non pochi limiti nell’operazione Barbarossa. L’Urss, poi, nella lotta contro il nemico non era un paese così unito come si credeva: basti pensare all’Ucraina o al collaborazionismo militare e ideologico; lo stesso movimento partigiano sovietico aveva luci e ombre. La storiografia sovietica e russa, inoltre, ha ignorato a lungo le responsabilità di Stalin nel rompere il precario equilibrio in Europa, a vantaggio della Germania, con il patto Molotov-Ribbentrop. E Stalin stava pianificando un attacco alla Germania nazista per il 1942».
Dati significativi emergono anche in merito ai criminali di guerra.
«Sulle quasi 82mila persone giudicate come criminali dai tribunali militari dell’Urss durante e dopo il conflitto, oltre 41mila erano cittadini sovietici, accusati per lo più di collaborazionismo o disfattismo: anche durante la guerra, dunque, la società sovietica subiva un clima di terrore perpetuo».
E con riguardo all’Italia?
«La mobilitazione parziale voluta da Mussolini dipese non solo dalle scarse risorse, ma anche dalla volontà di far credere che la guerra non sarebbe stata né lunga né impegnativa. Per mantenere stabile il fronte interno, il duce aumentò le spese per il Welfare a svantaggio del potenziale bellico».
La sua mi pare anche una storia sociale, etico-religiosa e psicologica della guerra.
«Sì, per dare voce a vicende spesso trascurate: il ruolo delle donne, la mobilitazione femminile nell’Urss, le memorie dei bambini, la vita di partigiani e partigiane, il sesso come era vissuto dagli occupanti, le regole del regime di occupazione. E la religione: se il regime fascista usò l’alibi della “guerra santa”, anche Stalin ne capì l’importanza sia come strumento di aggregazione sia per ripristinare il potere nelle aree che l’Armata Rossa avrebbe ripreso ai nazisti».
Salta all’occhio una sua particolare attenzione per prigionieri e reduci.
«In generale fu una tragedia enorme. Sul fronte orientale, i prigionieri furono alla totale mercé del nemico. L’Urss non aveva firmato la Convenzione di Ginevra, né lo avevano fatto Italia e Germania. Dei 70mila prigionieri militari italiani registrati dai sovietici, solo 10mila tornarono a casa, ma anche le perdite tra i prigionieri sovietici furono altissime. E molti, al rientro, precipitarono in un nuovo dramma».
Quale prezzo di vite umane ha pagato l’Urss alla guerra? Quali vantaggi ne ha tratto?
«Il prezzo fu smisurato: tra civili e militari, circa 27 milioni. D’altro canto, la vittoria conferì un enorme prestigio internazionale all’Urss, che divenne uno degli arbitri della politica mondiale del dopoguerra».
Lei descrive frangenti sconvolgenti in modo partecipe, ma controllato. È stato difficile farlo?
«Talora mi sono dovuta fermare per recuperare un atteggiamento di sobrio distacco: non indifferenza o freddezza, ma un mezzo senza cui sarebbe stato impossibile tentare di raccontare le sofferenze di chi è stato travolto da eventi così spaventosi».