Un’ondata travolgente: cosí l’Italia interventista entrò nel primo conflitto
24
MAGGIO
2017
dal “Messaggero Veneto”.
All’armi, all’armi! l’appello di D’Annunzio, Marinetti e Corradini Ma era già tutto deciso dopo il patto segreto di Londra di aprile
di VALERIO MARCHI
«Maledetta la guerra, maledetto chi la pensò, maledetto il primo che la gridò!». Scriveva così alla fidanzata, da una trincea della Grande Guerra, un soldato italiano rimasto anonimo. La lettera fu intercettata dalla censura, ma quel grido di disperazione echeggia ancora assieme a tanti altri.
In tutta Europa, d’altronde, furono molti (troppi!) gli intellettuali che – come scriveva quel povero soldato mandato al macello – pensarono e gridarono la guerra, glorificandola. Tra i «maledetti» cantori italiani della guerra non si possono scordare, fra i più rappresentativi, il nazionalista Enrico Corradini («la guerra è, come la pace, necessaria e salutare nel mondo»), il letterato Giovanni Papini («amiamo la guerra, un caldo bagno di sangue») e il futurista Tommaso Marinetti («la guerra sola igiene del mondo, sintesi fulminante e perfetta del progresso»).
Il primato (certo non lusinghiero) spetta tuttavia a Gabriele D’Annunzio, vero e proprio Vate del dio Marte. Dalle “Canzoni della gesta d’oltremare” («Italia! Del miglior sangue fa le tue rugiade») ai “Canti della guerra latina” («Signor di sangue, Dio dei combattenti»), passando attraverso la collaborazione con il “Corriere della Sera” per spostare l’orientamento dell’opinione pubblica verso l’ingresso nel conflitto, D’Annunzio si consacrò “profeta” di quanti animarono le sciagurate “radiose giornate” interventiste del maggio 1915.
I suoi discorsi, oltremodo enfatici e trascinanti, fecero scuola. Spicca, su tutti, l’orazione tenuta allo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, ricorrenza del 55º della spedizione dei Mille e giorno inaugurale del monumento celebrativo realizzato da Eugenio Baroni, ispirato all’Inno di Garibaldi: «All’Armi! All’Armi! / Si scopron le tombe, si levano i morti / I martiri nostri son tutti risorti! / Le spade nel pugno, gli allori alle chiome…».
Nel suo lungo discorso, D’Annunzio toccò le vette della cosiddetta “religione della patria”: un’espressione comune per i nazionalisti tra Otto e Novecento, però mutata nel tempo da puro sentimento a religione civile della nazione e, infine, a vero e proprio culto: una paradossale trasposizione laica della fede religiosa in ambito politico, nazionalista e bellicista.
In particolare, rifacendo il verso alle celebri beatitudini pronunciate da Gesù nei Vangeli di Matteo e Luca (che promettono regno dei cieli, visione di Dio, consolazione e felicità eterne ai poveri in spirito, ai mansueti, ai misericordiosi, a chi soffre per portare la pace), il poeta-guerriero pescarese dichiarò «beati» gli ardenti guerrieri che, «con cuore devoto», avrebbero dedicato tutto il loro amore alla patria e il loro odio al nemico, che nel combattere sarebbero stati non ultimi, ma primi (altra allusione evangelica) e che, infine, avrebbero deterso «un sangue splendente» per vedere «il viso novello di Roma».
Certo, la scelta per la guerra era già stata fatta con il patto segreto di Londra del 26 aprile, e diversi fattori – anche di carattere economico – rendevano a quel punto quasi ineluttabile l’intervento al fianco dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia). Nondimeno, fu notevole l’impatto che ebbero sull’opinione pubblica orazioni e manifestazioni accese, talora veementi. Per intenderlo meglio, giova considerare la stampa dell’epoca, anche a Udine.
Alcuni giornali cittadini dedicarono ampio spazio, ad esempio, proprio alla «celebrazione patriottica sullo scoglio di Quarto», associandosi all’«indescrivibile entusiasmo», alle «acclamazioni frenetiche», alla «voce calda e vibrante» di D’Annunzio. Il “Giornale di Udine” scrisse che il popolo friulano attendeva «l’ora dell’azione» con «l’entusiasmo della fede nei destini della patria»: a quel punto – come aveva ammonito a Quarto il Vate della guerra – anche chi «aveva ieri gridato contro l’evento» avrebbe dovuto «accettare in silenzio l’alta necessità».