La fame, la grande carestia e un popolo in ginocchio
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LUGLIO
2018
dal “Messaggero Veneto”.
Il libro di Marco Monte racconta gli anni drammatici dal 1813 al 1817 in Friuli Coinvolta soltanto la gente comune, che viveva in una quotidiana indigenza
di VALERIO MARCHI
Marco Monte con “La grande carestia 1813-1817 in Friuli. L’ultima grande crisi di sussistenza del mondo occidentale”, edito da Gaspari è uno dei tre finalisti del premio nazionale Friuli Storia. Il 5 ottobre la premiazione a Udine.
Per scoprire le cause della grande carestia del 1813-1817 in Friuli dobbiamo spostarci in Indonesia. Perché?
«In un’isola dell’arcipelago indonesiano, una grande eruzione vulcanica causò nel 1815 un’enorme nube di nebbia secca, determinando un abbassamento delle temperature e un sensibile calo dei raccolti agricoli nelle zone colpite».
L’area geografica d’indagine è il Friuli: ma è corretto parlare di una dimensione solo microstorica?
«No, questo evento appartiene alla macrostoria. La nube coinvolse, oltre al luogo originario della catastrofe, buona parte dell’emisfero nord del pianeta».
Quali le altre cause della carestia?
«All’epoca il Friuli era teatro di operazioni militari napoleoniche e austriache. Le popolazioni stanziali subirono angherie, distruzioni dei raccolti, requisizioni di merci e di animali, il caos che ogni guerra porta con sé… A tutto ciò si sovrapposero i danni prodotti dall’eruzione vulcanica».
Quali fonti ha utilizzato per un lavoro così ampio e meticoloso su un tema sinora trascurato?
«Documenti reperiti negli archivi di Stato di Udine, Pordenone e Venezia, in quelli Diocesani di Udine e Pordenone, in quello Storico di Pordenone, in quelli parrocchiali di numerosi paesi. Anche pubblicazioni mediche degli anni compresi in questa inchiesta e frammenti cartacei provenienti da collezioni private».
Troviamo scritto che “non fu una crisi democratica”: in che senso?
«La mortalità per fame non fu livellatrice come quella delle grandi epidemie medioevali che, in tempi più recenti, non facevano distinzioni di ceti. In tempi di carestia invece era coinvolta solo la gente comune, che viveva in una quotidiana indigenza. I signori no».
Furono efficaci gli interventi delle autorità?
«Le misure per tamponare le situazioni più critiche e i lavori pubblici intrapresi per dare un minimo di reddito a coloro che la carestia aveva privato di tutto ebbero un’efficacia parziale. Lo testimonia l’impressionante numero dei decessi per fame riscontrabile nei registri parrocchiali».
I cattedratici hanno dimenticato questa catastrofe del mondo rurale?
«Se dobbiamo considerare il numero di pubblicazioni, seminari e convegni, mi sento di affermare che c’è senz’altro ancora molto da fare».
È stato difficile conciliare il rigore razionale dell’analisi storica con l’empatia verso i ceti marginali, che emerge distintamente?
«I ceti più esposti e il rigore scientifico sono centrali nella mia produzione letteraria. Non possiamo comprendere l’esistenza e il comportamento degli esseri umani senza sapere come affrontavano le circostanze della vita: lavoro massacrante e poco retribuito, tasse e gabelle, abitazioni malsane, vestiario inadeguato, igiene latitante, malattie letali, mancanza d’istruzione, di diritti e di tutele… Io intendo togliere tutto ciò dall’oblio».
È plausibile qualche analogia fra i disperati che attraversano oggi il Mediterraneo e i migranti friulani dell’età postnapoleonica, spinti da carestie, guerre e denutrizione?
«Carestie e fame sono all’origine di migrazioni di milioni di uomini da sempre. Oggi la velocità delle informazioni, la possibilità di stoccare quantità impensabili di derrate alimentari e di trasportarle velocemente ovunque potrebbero ovviare a circostanze limite.
Ma di norma ciò non accade, e uno dei motivi – non l’unico – è che le organizzazioni umanitarie utilizzano quantità molto rilevanti degli aiuti raccolti per mantenere in vita le proprie strutture. Alla fine, qualcuno trova sempre il modo di arricchirsi alle spalle dei più poveri».