Quando i friulani si rivoltarono a Radetzky
8
APRILE
2018
dal “Messaggero Veneto”.
Nel 1848, militi del 26° reggimento di stanza a Udine disertarono. E l’udinese Riva guidò la fuga da Bludenz
di VALERIO MARCHI
Gli austriaci vanno annegati «nel loro stesso sangue», mentre gli italiani che si battono al loro fianco sono «Caini» e «Giuda» destinati alla «dannazione eterna»: così recitava, nel 1848, uno dei vari “catechismi rivoluzionari” della propaganda antiaustriaca risorgimentale. Poi, alla domanda «Quando saremo benedetti nella nostra nazionalità?», si rispondeva: «Quando avremo bevuto il sangue dei tedeschi nei crani di Metternich e Radetzky».
Degli oltre 70 mila uomini di cui Radetzky disponeva nel 1848 nel Lombardo-Veneto, circa un terzo erano italiani. Due erano i corpi d’armata, con comandi a Milano e Padova, otto i distretti: uno era quello di Udine, con giurisdizione sui territori delle attuali provincie di Udine e Pordenone e sui comuni trevigiani e bellunesi alla sinistra del Piave. Sebbene nel ‘48 si paventasse addirittura la fine dell’apparato statale imperiale, gli austriaci riuscirono infine a controllare buona parte delle loro forze: molti sbandati e disertori rientrarono, mentre a quelli rimasti fedeli vennero scontati due anni di servizio (la leva obbligatoria ne prevedeva ben otto). Nondimeno, si verificarono fatti clamorosi come quello che raccontiamo.
Il 26° Fanteria, uno dei reggimenti dei soldati arruolati dagli asburgici nella parte veneta, annoverava tre battaglioni composti quasi per intero da friulani: due acquartierati a Bludenz (130 km circa a ovest di Innsbruck) e Bregenz (sul lago di Costanza), il terzo di guarnigione fra Udine, Osoppo e Palmanova. Dal 1844 al 1848, il 26° Reggimento si chiamò “Arciduca Ferdinando d’Este”. Nel marzo-aprile 1848, mentre – come scrisse il capitano von Aichelberg – «le fiamme della ribellione si diffondevano selvaggiamente» e regnava l’incertezza, Udine si liberò per un mese dagli austriaci. Due compagnie del 3° Battaglione del 26° disubbidirono allora al maggiore Reichlin Meldedegg e, in seguito, ben 224 militi su 380 disertarono. Certi o quasi di farcela, data la situazione.
In diserzioni come questa (non infrequenti, comunque, da ambo le parti) giocavano vari fattori: dai sentimenti filoitaliani al desiderio di uscire dall’esercito, dal timore di trovarsi dalla parte sbagliata nel momento sbagliato alle costrizioni subite da altri disertori.
A Bludenz, a inizio maggio, alcuni friulani del 26° si rifiutarono di scendere a combattere in Italia e furono destinati alla fucilazione. Ma l’udinese Sebastiano Riva e altri convinsero buona parte dei commilitoni (molti dei quali già irrequieti, o addirittura reclutati fra criminali comuni), anche quelli di Bregenz, a liberare i condannati e disertare. Iniziarono allora convulse marce di oltre 700 soldati, in parte dispersi e in parte riacciuffati o uccisi dagli austriaci. A metà mese, comunque, circa 220 disertori riuscirono a raggiungere Como e Milano, dove furono calorosamente accolti.
Sebastiano Riva militò nelle file italiane (17° Fanteria) sino al 1858, poi trovò un impiego sinché, nel 186,8 tornò in Friuli, dove contribuì a fondare la Società Veterani del 1848-49. Poco prima di morire, nel 1890, rivolse un omaggio al conte e patriota udinese Antonino di Prampero, di lì a poco nominato senatore.
Non pochi fra i disertori del 1848 proseguirono in vario modo la lotta antiasburgica anche sino alla Terza guerra d’indipendenza. Altri invece tornarono, volenti o nolenti, all’Austria.
I cultori di storia patria Antonio Picco ed Ernesto D’Agostini attestarono che nel 1866, quando buona parte del Friuli divenne Italia, «i soldati veneti restituiti dall’Austria al nostro Governo» e presenti alla visita di Vittorio Emanuele II a Udine (14 novembre), sebbene «laceri e dimessi», mostrarono «la più gioconda allegria di cuore», salutando il re con «un fragoroso urrà che trovò eco nell’intimo sentimento della cittadinanza, lieta di vedere i suoi figli cavarsi infine di dosso l’odiata divisa straniera».
Toni celebrativi, da integrare con altre informazioni e prospettive, ma che stimolano l’indagine sulla realtà cui si riferiscono.