«Le parole di Anne Frank, proprio le sue, una per una»
30
GENNAIO
2018
dal “Messaggero Veneto”.
Matteo Corradini racconta come ha recuperato e tradotto la versione autentica e integrale del famoso Diario
di VALERIO MARCHI
Matteo Corradini, esperto di mistica ebraica e di Shoah, è fra le altre cose scrittore, giornalista, autore di teatro. Nel 2017 ha curato e introdotto per Rizzoli la nuova versione italiana (dall’olandese) del “Diario di Anne Frank”, realizzata da Dafna Fiano, frutto di un’attenta ricerca filologica, lessicale, letteraria. Si può a buon diritto parlare di versione definitiva.
La prefazione offre la testimonianza di Sami Modiano, ebreo italiano sopravvissuto ad Auschwitz, affinché gli occhi dei giovani «non debbano più vedere quello che di atroce i miei occhi, gli occhi di Anne Frank e quelli di milioni di persone hanno visto nell’inferno dei campi di sterminio».Per spiegare l’opportunità dell’opera, Corradini parte dalla constatazione che la lingua, il nostro modo di vedere le cose e la cultura cambiano. Edizioni passate, inoltre, forse per un eccesso di rispetto, hanno considerato il linguaggio di Anne letterario, fino a tradurlo in modo alto, talora libresco. Lei, però, è per lo più lineare e brillante.
Corradini, lei sostiene che Anne Frank è nota a tutti, ma «come Pinocchio». In che senso?
«Tutti, più o meno, conoscono la storia di “Pinocchio”, ma pochi hanno letto il libro. Allo stesso modo, tutti conoscono la vicenda di Anne Frank a larghe linee, ma pochi nei dettagli. Tuttavia, sono proprio i dettagli a fare la differenza in una vita e, soprattutto, nella cultura. A larghe linee non si va da nessuna parte. Bisogna sempre approfondire le cose».
Eppure, Anne è un simbolo assoluto della Shoah…
«Sì, al punto che la conoscono persino certi tifosi della Lazio… Ricordiamo bene che cosa è successo lo scorso ottobre! Perciò, se Anne rimane solo un simbolo, le facciamo un grave torto».
A proposito di quell’increscioso episodio, non è paradossale che per denigrare i tifosi avversari sia stata scelta l’immagine di Anne, una piccola vittima innocente?
«Già, e non quella di Hitler, tanto per fare un nome! Questo può aiutarci a capire che davvero c’è qualcosa che non va».
In quei giorni, per reazione, ha preso piede lo slogan: «Siamo tutti Anne Frank».
«Bisogna fare attenzione. Anne Frank è Anne Frank proprio perché non è di nessuno, e nessuno è Anne Frank. Se non capiamo questo, corriamo il rischio occuparci di sfuggita di una cosa importante, per poi dedicarci, a distanza di poche ore, a una nuova cosa importante con la medesima superficialità».
Ci può spiegare meglio?
«Sentire Anne estranea e diversa è un buon inizio. Avere il tatto che si usa per le cose preziose è un buon primo passo. Decidere di non appropriarsene è l’unica scelta successiva. Appropriarsi di lei non serve a difenderla, o a renderla più visibile. Dire che siamo tutti Anne Frank può portarci a essere non migliori, bensì più poveri, più distratti».
Poi la Figc, il 24 ottobre scorso, per opporsi all’antisemitismo, ha disposto la lettura su tutti i campi di calcio di un brano tratto dal “Diario” di Anne.
«Sì, è un brano scritto pochi giorni prima che i nazisti la catturassero: “Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità”».
Lei è stato incaricato per Juventus-Spal, e ha accettato…
«Certo. Poteva sembrare un gesto ipocrita, per lavarsi la coscienza; oppure un atto rieducativo nei confronti degli ultrà. Ma io l’ho vissuto diversamente».
Vale a dire?
«Siamo in tanti ad avere bisogno di aprire gli occhi su certe cose, non solo gli ultrà. E per me parlare di Anne davanti alla gente è normale e fondamentale, che sia davanti a 40 o 40mila persone».
Come ha reagito il pubblico?
«Molto bene, con rispetto e con un grande applauso. Fatta eccezione per quegli ultrà che si sono girati dall’altra parte e hanno protestato cantando l’inno di Mameli…».
Lei porta Anne Frank in tante scuole e prossimamente sarà a Udine, al liceo Marinelli. Ma la scuola fa abbastanza?
«C’è caso e caso, ma, in generale, la scuola fa molto più di altri per la memoria e contro il razzismo: da questo punto di vista, è un vero baluardo. I giovani sono giovani, hanno per definizione bisogno di imparare. Il vero problema sono più spesso i tanti adulti che non sentono il bisogno di superare la propria ignoranza, o peggio ancora non vogliono farlo».
Quale modello ci lascia Anne Frank?
«Anne rimane rinchiusa per 25 mesi nel piccolo alloggio «sul retro» (e non «segreto», come in genere si traduce) ma è un prototipo di ragazza europea eccezionale: ha grandi aperture e il gusto per la curiosità, per il mondo. E ci dice che, dovunque siamo, dobbiamo avere voglia di essere anche da un’altra parte. Restando fermi si torna indietro. Sepolta con altre 50-60 mila persone in un’enorme fossa comune a Bergen-Belsen, Anne Frank vive e cammina ancora».