«L’avidità ha avvelenato i nostri cuori»
17
DICEMBRE
2017
dal “Messaggero Veneto”.
Dal suo capolavoro “Il grande dittatore” Il giorno di Natale del ’77 moriva Charlot
di VALERIO MARCHI
«Dobbiamo amare tutti: ebrei o ariani, neri o bianchi, e godere solo della felicità del prossimo, perché in questo mondo c’è posto per tutti. La macchina dell’abbondanza e l’avidità hanno avvelenato i nostri cuori, facendoci dimenticare che la vita può essere una felice avventura. Più che di macchinari e di abilità, abbiamo bisogno di dolcezza e di fratellanza universale, altrimenti tutto è perduto. Nel Vangelo di Luca sta scritto che il Regno di Dio abita nel cuore degli uomini: usiamo allora questa forza per combattere uniti per un mondo migliore e ragionevole. Contro ogni bruto che sale al potere, liberiamo il mondo, eliminando confini, barriere, odi e intolleranze! Solo guardando in alto, verso il cielo, l’animo umano volerà verso la luce della speranza, verso un futuro glorioso per tutti»…
Parole natalizie di papa Francesco? No, sono di Charlie Chaplin. Il quale, guarda caso, 40 anni fa morì proprio nel giorno di Natale. E non solo non era credente (né ebreo, come asserivano alcuni), ma non aveva mai sopportato il Natale.
Le frasi sopra riportate sono una breve parafrasi dell’accorato appello che Chaplin, dal pulpito di uno dei suoi capolavori, rivolge all’umanità della sua e di ogni altra epoca.
L’invito principale è quello a leggere bene il proprio tempo, per reagire. Quel capolavoro – molti lo avranno già capito – è il suo primo film parlato: Il grande dittatore, uscito nell’ottobre del 1940. Le riprese erano iniziate nel 1939, pochi giorni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
La parte introduttiva, peraltro, è ambientata nella Grande Guerra e connette – come è opportuno fare – i due conflitti mondiali; ma l’intera pellicola è un osservatorio privilegiato da cui guardare al genio che l’ha concepita in uno dei frangenti più drammatici della nostra storia, mescolando tragico e comico, con tratti talora profetici. La sua denuncia delle dittature, dei deleteri nazionalismi, della guerra, delle persecuzioni antisemite (su cui molti governi europei tacevano) e di altri orrori e ingiustizie, è un lascito senza età.
E quando a Chaplin fu detto che, così facendo, rischiava grosso, lui rispose semplicemente che qualcuno doveva pur farlo.
Charles Spencer Chaplin nacque a Londra nel 1899, quattro giorni prima dell’uomo più temuto d’Europa: Hitler, il quale, assieme ai suoi mastini e a Mussolini, nel “Grande dittatore” non viene certo preso di mira solo per aver rubato i baffetti a Chaplin, come lo stesso artista soleva dire scherzando.
Vengono messe alla berlina, infatti, la natura tragicomica dei tiranni e le loro abnormi macchine del consenso. Charlot ha mostrato al mondo, forse meglio di chiunque altro, come il cinema possa essere una vera arte, capace di effondere con energia irresistibile divertimento, emozioni, poesia, valori, critica sociale, coraggio, speranza. E si è fatto beffe dei despoti e delle loro ingiustizie con il riso, con l’ironia e con un’alzata di spalle. Ma anche con i buoni sentimenti.
Premeva poi un’altra urgenza: il mondo era in balìa uomini che lopalleggiavano come se fosse un mappamondo gonfiabile che, prima o poi, avrebbe potuto scoppiare (la scena magistrale che esprime questo allarme è nota a tutti). Ma «l’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori», diceva Chaplin, che esclamava: «Voi non siete macchine, siete uomini!».
È un allarme che echeggia forte ancora oggi, fra revisionismi e negazionismi, riflussi d’intolleranza e razzismi che – lo constatiamo con inquietudine – non hanno neppure più necessariamente bisogno della guida dei dittatori.
Chaplin diceva che non occorre essere ebrei per essere antinazisti: bastano esseri umani che conservino un briciolo di dignità.
E ammoniva che certe tragedie possono ripetersi, perché ogni nazione ha in sé cellule malate che, quando calano le difese immunitarie della democrazia, prontamente si attivano.