Nell’opera di Valle e Marconi le parole di Piero Calamandrei
25
APRILE
2017
dal “Messaggero Veneto”.
n piazzale XXVI luglio è scolpito lo storico discorso sui valori della Resistenza Quella data indelebile ricorda la vittoria «contro gli invasori di fuori e di dentro»
di VALERIO MARCHI
Piazzale XXVI luglio, a Udine, evoca l’annessione del Friuli all’Italia nel 1866. È sede inoltre sia del Tempio Ossario (dedicato ai caduti della Grande Guerra) sia dell’imponente Monumento alla Resistenza, la cui realizzazione iniziò cinquant’anni fa (fu poi inaugurato il 25 aprile 1969).
Firmata dagli architetti Gino Valle e Federico Marconi, l’opera accoglie una scultura di Dino Basaldella e ricorda caduti, dispersi, deportati e partigiani della guerra di Liberazione in Friuli. Vi si trova inoltre, incisa nel cemento, una riflessione di Piero Calamandrei, che fu tra i padri costituenti.
«Quando considero questo misterioso e miracoloso moto di popolo, questo volontario accorrere di gente umile, fino a quel giorno inerme e pacifica, che in una improvvisa illuminazione sentì che era giunto il momento di darsi alla macchia, di prendere il fucile, di ritrovarsi in montagna per combattere contro il terrore, mi vien fatto di pensare a certi inesplicabili ritmi della vita cosmica, ai segreti comandi celesti che regolano i fenomeni collettivi, come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno, come le rondini di un continente che lo stesso giorno s’accorgono che è giunta l’ora per mettersi in viaggio. Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini».
Queste parole erano state pronunciate nel 1954, nel discorso Passato e avvenire della Resistenza. «Cercare che cosa fu la Resistenza significa indagare che cosa è rimasto vivo di essa nelle nostre coscienze», leggiamo.
E ci viene ricordato che, in realtà, in queste celebrazioni «sono i morti che ci convocano, dinanzi a un tribunale invisibile, a rendere conto di quello che facciamo per non essere indegni di loro».
Un decennio dopo la Liberazione l’Italia, passata dagli orrori della guerra ad «un’aria di apparente ordinato benessere, di gaudente euforia», pareva compiere «un miracolo». Nello stesso tempo, però, sorgeva un crescente discredito dei valori resistenziali, quello che Calamandrei chiamò «desistenza»: «Resistenza è impegno, attivismo, protagonismo, memoria dei valori della coscienza e della ragione; desistenza è passività, rassegnazione, indifferenza alla politica, oblio».
La Resistenza – continuava – «fu la logica, fatale conclusione del ventennio di Mussolini», ma annoverò numerose vittime anche durante «un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di disgregazione civile». Perché il periodo fascista «non fu, come oggi qualche sciagurato immemore crede, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale». La guerra partigiana, poi, «scoppiò come una miracolosa esplosione» e «il 25 aprile finalmente i conti col fascismo furono saldati». Fu una vittoria «contro gli invasori di fuori e di dentro», nonostante le inevitabili (per le condizioni in cui sorse, e perché dopotutto «gli uomini sono uomini», come scrisse Emanuele Artom nel suo diario del 1944) crudezze e contrapposizioni interne.
Nelle carceri fasciste i reclusi «riuscivano a intendersi attraverso il muro». Allora «anche noi, in questa età di nuove prigionie, dobbiamo cercare d’intenderci col battito del cuore attraverso i muri che dividono il mondo». Nel suo “Discorso sulla Costituzione” (1955) Calamandrei aggiunse: «Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero».
Parole di oltre sessant’anni fa, che paiono benefiche e attuali.