Una battaglia lunga cent’anni
7
MARZO
2017
dal “Messaggero Veneto”.
Nel 1909 in America, nel 1917 in Russia, le prime marce per la pari dignità
di VALERIO MARCHI
Cent’anni fa, l’8 marzo 1917 (secondo il calendario gregoriano), le donne di San Pietroburgo – al tempo Pietrogrado – scendevano in piazza per chiedere la fine della guerra: aveva inizio la rivoluzione russa di febbraio (calendario giuliano) e le manifestazioni di quei giorni segnavano il crollo dello zarismo.
A quell’8 marzo avrebbe guardato, nel 1921, la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste a Mosca per scegliere la data della Giornata internazionale dell’Operaia.
Così la data entrò nella storia della Giornata internazionale della donna (detta altresì Giornata della Donna o Festa della Donna) che, peraltro, era nata negli Stati Uniti il 28 febbraio 1909 su impulso del Partito socialista per chiedere il voto femminile (giova sempre rivedere, in proposito, il pregevole “Suffragette” di Sarah Gavron, con le sue valorose donne maltrattate, imprigionate e uccise per sostenere i diritti e la dignità loro e delle generazioni future).
In alcuni paesi europei, con date diverse, la Giornata si tenne per la prima volta nel 1911 su impulso del Segretariato internazionale delle donne socialiste. In Russia invece nel 1913, voluta dal Partito bolscevico. Le celebrazioni furono poi interrotte dalla Grande Guerra.
E fu proprio con la guerra che il movimento d’emancipazione femminile ebbe una svolta dopo la spinta data nella seconda metà dell’Ottocento dall’estensione del processo di industrializzazione, con i suoi riflessi sulla divisione sociale del lavoro e sul modello organizzativo della famiglia.
Innumerevoli vicende attestano la forza, la tenacia e le capacità organizzative delle donne prima, durante e dopo il conflitto. Figure per lo più (ma non solo) umili, pronte a ogni sacrificio (e i supplizi furono terribili: si pensi solo alle brutalità patite nell’occupazione seguita a Caporetto) per sostituire gli uomini in famiglia, nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende, nelle amministrazioni comunali, nei lavori militari.
Andarono dunque in guerra anche le donne, sia sul fronte interno sia su quello vero e proprio: come crocerossine, in Carnia come portatrici (ricordiamo l’epica figura di Maria Plozner Mentil, rappresentativa di un “esercito” di altre), combattenti o tristemente nelle retrovie come prostitute, a “sollievo” delle truppe… «per poi essere rimandate a casa, a guerra finita, senza neppure un grazie», ha osservato Dacia Maraini.
A Redipuglia, tra i centomila caduti, compare un solo nome di donna, vale a dire la medaglia di bronzo al valor militare Margherita Kaiser Parodi Orlando, nata a Roma nel 1897, morta alla fine del 1918 di febbre spagnola a Trieste: una fra le tante rimaste al loro posto mentre «il nemico bombardava la zona dell’ospedale cui era addetta» (a Pieris, dov’era giunta dopo il servizio prestato a Cividale).
In Italia la Giornata si tenne per la prima volta nel 1922 grazie al Partito comunista. Poi la celebrò di nuovo l’Unione Donne in Italia l’8 marzo 1945 nelle zone liberate.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’8 marzo 1946, comparve per la prima volta il simbolo della mimosa.
In seguito, fra varie tappe (nel 1977, a esempio, fu indetta una “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti della donna e la pace internazionale”), la festa – tralasciando i sopravvenuti aspetti commerciali – è divenuta occasione di rivendicazione dei diritti femminili, di difesa delle conquiste fatte, di denuncia di ogni disparità e violenza che le donne continuano a subire, soprattutto negli ultimi tempi, in un altro tipo di guerra: uno stillicidio di abusi perpetrati da “uomini che odiano le donne”. Uomini che, in realtà, odiano se stessi.