Don Biasutti scrisse nel ’37: «Dobbiamo amarli»
26
GENNAIO
2017
dal “Messaggero Veneto”.
Ripresentato lo storico libro che il sacerdote pubblicò subendo gravi conseguenze
di VALERIO MARCHI
Ieri in Sala Ajace Valerio Marchi ha riproposto, a 80 anni dalla pubblicazione, il testo di don Guglielmo Biasutti “Ebrei e cattolici in Italia” (Udine, 1937).
UDINE
«Amarli gli ebrei: e conoscerli! Ecco il dovere dei cattolici. Gli scambi intellettuali devono essere intensificati e saranno enormemente vantaggiosi». Pronunciate oggi, nel quadro di incontro e di stima reciproca che, dopo la Shoah, si è gradualmente delineato fra ebrei e cattolici, queste parole, pur sempre forti e necessarie, non suonerebbero tanto ardite e innovative.
Ma sono parole che risalgono al 1937: scritte – subendone peraltro spiacevoli conseguenze – da un nome prestigioso del clero friulano, noto fra le tante cose soprattutto per la fondazione dell’Istituto Bearzi e per la sua avventura di cappellano militare nella Campagna di Russia. Si tratta di Gugliemo Biasutti (1904-1985, nelle foto), che dichiarò di aver deciso di stampare (con lo pseudonimo di G. Natti Dubois) il libro “Ebrei e cattolici in Italia” su richiesta di alcuni suoi amici ebrei.
Destava inquietudine, infatti, la fresca pubblicazione in Italia di scritti alquanto ostili nei confronti degli ebrei. Su tutti quello che, proprio nel 1937, aveva aperto la polemica antiebraica su larga scala: “Gli Ebrei in Italia” di Paolo Orano, che in buona sostanza poneva gli ebrei di fronte alla drastica scelta di perdere del tutto la propria identità per essere considerati autentici cittadini.
Nel complesso, il mondo cattolico manifestava una certa riluttanza a partecipare alla discussione sul libro di Orano (recensito da altri con entusiasmo, per quanto in un clima di stampa controllata). E anche in seguito fu chiaro come fosse davvero arduo per i cattolici elaborare un modo di porsi nuovo verso gli ebrei.
Già dal 1936, anche (ma non solo) per l’avvicinamento del fascismo al nazismo, le cose erano andate peggiorando per gli ebrei nella Penisola. Oltre al regime, cominciarono ad attaccarli certi giornali umoristici, cui si aggiunsero altri di vario tipo. Né si astennero voci cattoliche influenti, quali “La Civiltà Cattolica”, in sintonia con la Santa Sede: la rivista dei gesuiti, infatti, da una parte deplorava le persecuzioni e il “neopaganesimo razzista”; dall’altra, tuttavia, non smetteva di dipingere gli ebrei come invadenti padroni del denaro desiderosi di dominare il mondo, proponendo forme “moderate” di limitazione della loro presenza. Anche con l’avvio della legislazione razzista italiana – dall’autunno del 1938 – la linea cattolica prevalente non rinunciava a consueti stereotipi nei confronti dei cittadini israeliti, prospettando come unica vera soluzione la loro conversione al cattolicesimo. Ma è proprio in questo scenario che il libro scritto da don Biasutti 80 anni fa emergere come uno dei rarissimi interventi di segno almeno in parte diverso. Indicò, infatti, un atteggiamento minoritario di dialogo e di rispetto, che avrebbe favorito – dopo l’abisso della Shoah – la nascita di buoni frutti. Basti dire che, nonostante limiti propri dell’epoca e aspetti discutibili, “Ebrei e cattolici in Italia” considerava gli ebrei “fratelli maggiori” dei cristiani: un’espressione ripresa da papa Wojtyla nella Sinagoga di Roma 50 anni più tardi, nel 1986. Un anno dopo la morte del sacerdote friulano. (va.ma.)