Centocinquant’anni fa in Friuli e nel Veneto vinse il “sì” all’Italia
20
OTTOBRE
2016
dal “Messaggero Veneto”.
Il 21 e 22 ottobre il voto popolare suggellò l’avvenuta unificazione. Valussi: «Speriamo che la libertà ci educhi all’uso della libertà»
di VALERIO MARCHI
«Come l’uccello vissuto lungo tempo nella gabbia se gli si dona la libertà è tardo a volare, noi chiamati improvvisamente all’azione ci mostriamo pigri e inerti»: così si espresse l’avvocato Cesare Fornera sulla stampa udinese – finalmente libera – poco dopo le elezioni comunali («il nostro primo passo nella vita politica») e poco prima del plebiscito che si tenne il 21-22 ottobre 1866.
Quindi, dopo la consegna ai Savoia della Corona Ferrea (simbolo storico della sovranità sull’Italia) e l’introduzione della legge elettorale del Regno d’Italia nel Veneto, il 25 novembre si sarebbero tenute le prime votazioni politiche in Friuli.
La principale causa della pigrizia e dell’inerzia, emerse peraltro dalla bassa affluenza al voto nelle suddette elezioni comunali, fu individuata da Pacifico Valussi nella mancanza di abitudine alla libertà. Ciononostante, il suo auspicio era chiaro: «Noi speriamo che la libertà ci educhi un poco alla volta all’uso della libertà».
E, nel frattempo, era sempre «meglio qualcosa che nulla, meglio camminare anche zoppi che stare immobili».
Anche in Friuli, insomma, una volta fatta l’Italia bisognava faticosamente fare gli italiani, vale a dire formare cittadini di alto e forte carattere, dopo secoli avvilenti di dispotismo, corruzione, clericalismo e quant’altro.
L’aria di libertà si poté concretamente assaporare con la Terza guerra d’indipendenza (giugno-agosto 1866), iniziata in realtà come uno scontro fra asburgici e prussiani. Nel mezzo, al fianco della Prussia, s’era inserito il Regno d’Italia.
Tuttavia, a parte l’avanzata in Trentino dei garibaldini (poi bloccati dall’ordine di La Marmora il 9 agosto, in vista dell’imminente armistizio di Cormòns) e qualche altro frangente propizio, ne era uscito a militarmente a pezzi; e solo grazie alla vittoria prussiana aveva ottenuto dall’Austria – tramite Napoleone III, però, giacché l’Impero asburgico rifiutò di considerarsi sconfitto dagli italiani – il Veneto e il Friuli centro-occidentale, oltre alla provincia di Mantova (trattato di Vienna, 3 ottobre).
Il confine sulla linea dell’Isonzo, tracciato – si disse – «con la penna e con l’inchiostro», non era di certo aderente alle aspirazioni iniziali. Con tutto ciò, non era poco.
«Non abbiamo conseguito quello che volevamo; ma bensì quanto nelle condizioni attuali si poteva ottenere», commentò Valussi, che si riferiva, evidentemente, a fattori negativi quali a esempio: la breve vita dell’Italia unita, le disomogenee e mal condotte forze di terra e di mare, le profonde differenze tra regione e regione, la guerra civile ancora serpeggiante nel Sud, i residui di vecchi regimi, la lotta aperta con il papato, la grave situazione finanziaria, l’atteggiamento sprezzante di Napoleone III, l’umiliazione (anche d’ordine diplomatico) appena subita.
Il trattato conteneva inoltre, in linea con precedenti accordi, una clausola per la cessione all’Italia: «Sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate». In sostanza, un plebiscito. Tuttavia, due giorni prima della data stabilita per la consultazione era già stata firmata a Venezia la cessione delle terre venete all’Italia. E subito un proclama aveva annunciato che, mentre si elevava ovunque «il grido dell’esultanza», era sparita «l’ultima traccia di dominazione straniera».
La pratica plebiscitaria, che ha antiche radici, non era una novità nell’Italia dell’epoca. Anzi, rappresentò per decenni il picco della partecipazione popolare a una consultazione politica. Dal 1848 al 1870 se ne tennero, in contesti e con forme diverse, in Lombardia, nel Regno delle Due Sicilie, in Emilia, nelle Marche, in Toscana, in Umbria, a Roma e nel Lazio.
Il numero dei votanti effettivi era spesso notevole, soprattutto se consideriamo l’epoca. Un contesto di acclamazione universale e teatrale di festa e di gioia – indotta e spontanea – coinvolgeva l’intera società: persino minori e donne (come accadde anche in Friuli), che partecipavano ufficiosamente in varie forme. Spesso, inoltre, si smorzavano per un po’ le divisioni sociali, di classe, di genere, di età (questi e altri aspetti sono stati studiati a dovere da Gian Luca Fruci).
L’esito era sostanzialmente scontato e le percentuali per lo più “bulgare”, come diremmo oggi. Ma è un fenomeno che non è appropriato giudicare secondo odierni criteri di democrazia e autodeterminazione: era un intreccio di antico e moderno, ambiguo ai nostri occhi, non privo di anomalie e manipolazioni, ma concepito comunemente in continuità rispetto a ciò che si reputava già sancito dai fatti.