La peste nel XVI secolo. L’epidemia che infuriò a Udine fu l’occasione per cacciare gli ebrei.
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MARZO
2016
dal “Messaggero Veneto”.
L’infuriare della peste in Europa in epoca medievale e moderna non risparmiò Udine, dove, nel Cinquecento, si proposero talora misure di ghettizzazione, espulsione e restrizione di attività della…
di VALERIO MARCHI
L’infuriare della peste in Europa in epoca medievale e moderna non risparmiò Udine, dove, nel Cinquecento, si proposero talora misure di ghettizzazione, espulsione e restrizione di attività della popolazione ebraica. L’occasione più propizia coincise con l’epidemia iniziata nel marzo 1556, che causò la morte di oltre 800 cittadini.
Risulta che il primo decesso fu quello di un’israelita, moglie di Gioseffo da Muggia che avrebbe importato masserizie da Capodistria, dove imperversava il morbo; dalla casa di Gioseffo la peste s’era propagata tramite alcuni suoi familiari ebrei contigui e ciò contribuì a rafforzare i diffusi stereotipi antigiudaici. Alcuni agitatori che esigevano giustizia sommaria e saccheggi contro gli “untori” si scontrarono con la severa reazione del luogotenente Domenico Bollani. Il 9 giugno il Consiglio cittadino (che già a fine aprile aveva scelto deputati da inviare a Venezia per chiedere il beneplacito di espulsione) deliberò la cacciata degli ebrei a tempo indeterminato. Dopodiché, tranne sporadiche presenze, sino all’arrivo dei francesi non ci furono israeliti in città (ne rimasero taluni alle porte, in Chiavris, prestatori a interesse sotto i Savorgnan).
Nel 1558 il giureconsulto udinese Marquardo Susanna chiarì che gli ebrei, se imputati di trame contro i cristiani, potevano essere espulsi, e un caso esemplare, secondo lui, fu proprio la peste del 1556-1557, della quale egli riteneva giusto che tutti gli ebrei della città stessero pagando le conseguenze. Dal canto suo Giuseppe Daciano, “Dottor fisico cittadino” dell’epoca, rimpianse che non fosse stata usata nei confronti dei “perfidi e maledetti” giudei più “rigorosa giustizia”, come invece – sosteneva – faceva Dio infliggendo loro severi castighi. Era diffusa poi la credenza che l’accaduto fosse anche un castigo divino sulla città per non aver scacciato prima gli ebrei, in particolare nella terribile epidemia del 1511 (per combinazione scatenatasi dalla stessa casa del 1556).
Ora, se il contagio risultò spargersi da abitazioni d’ebrei, tuttavia non si può essere certi del modo in cui andarono esattamente le cose (come fu contratto il morbo, come entrò effettivamente in città). Già all’epoca, d’altronde, il cancelliere dell’Ufficio di Sanità Vincenzo Giusti aveva osservato: «L’origine della peste in casa di questa hebrea non è certa quantunque li provveditori sopra ciò ordinati con ogni sollecitudine havessero inquirito». Come che sia, gli ebrei furono le prime vittime. Non deve stupire, tuttavia, che le coincidenze abbiano offerto appigli contro gli ebrei, giacché ogni occasione poteva essere buona per renderli capri espiatori, e non solo in quanto ritenuti cospiratori, deicidi, profanatori d’ostie o autori di omicidi rituali: le vessazioni che li danneggiavano, infatti, offrivano la possibilità sia di avvantaggiarsi nei loro confronti a livello economico e commerciale sia di impossessarsi di beni di valore e di distruggere i libri contabili dei prestiti, annullando debiti tanto del popolo minuto, quanto dei cittadini altolocati, i quali, se da un lato contrastavano i più eversivi impulsi dal basso, dall’altro aspettavano non di rado il momento per espellere gli ebrei.
La peste del 1556 rappresentò dunque innanzitutto un pretesto (di certo non insolito) per alcune forze locali. Con un implicito riferimento alla concezione del “popolo maledetto”, Pagano de Susan-nis, capo delle guardie cittadine durante l’epidemia, definì «sententia divina» il fatto che il contagio avesse colpito proprio nei giorni di Pasqua gli israeliti ritenuti colpevoli, aggiungendo: «Cosa invero che dette occasione alla nostra città di discaciar di essa ditti ebrei».